Simbologia medievale, Pievi e Battisteri Lomellini

I QUADERNI DELLA SOCIETÀ STORICA VIGEVANESE

Numero 7

Edoardo Maffeo

Il pensiero medioevale esaltava il simbolo: di simbologia erano ossessivamente impregnate non solo la fede, la filosofia e le arti ma anche il quotidiano. L’allegoria ed il segno, la metafora e l’emblema, pur frutto d’un pensiero fortemente iniziatico ed elitario non rivolto alla gente comune, erano divenuti in quei secoli gli strumenti più semplici ed immediati di un modello di comunicazione culturale fortemente piramidale. In alto i vescovi e gli abati, coloro cioè che “facevano cultura”, al centro uno stuolo di chierici e monaci che diffondeva con ogni mezzo – orale o figurato – conoscenze ed imperativi fideistici ad una massa immensa di ignoranti e spesso affamati, che cercava nella fede quella serenità che non poteva ottenere dalla vita terrena. Ecco allora che i concetti e le idee, anche le più complesse, potevano giungere ad ogni segmento della società con un discorso sintetico per simboli, quasi un moderno audiovisivo, in un sottile gioco tra la sovrabbondanza delle immagini e l’occhio, tra il pensiero e l’intelligenza, che consentiva di decifrare dal “segno” ciò che non poteva essere afferrato dalla parola.[1]

Il predicatore- Bréviaire de Belleville (folio 271r), Parigi, Bliothèque nationale
Il predicatore- Bréviaire de Belleville (folio 271r), Parigi, Bliothèque nationale

Chi oggi considera le molteplici manifestazioni del pensiero simbolico medioevale da un punto di vista puramente razionale e scientifico, sarà portato a chiedersi, tra il sorpreso ed il divertito, come abbiano potuto affermarsi idee che a noi paiono spesso curiosamente singolari. La nostra mentalità secolarizzata ed il nostro pensiero scientifico procedono ormai da lungo tempo su strade ben diverse da quelle tracciate dagli autori del “physiologus” dei primi secoli dell’era cristiana, o dei “bestiarium” medioevali.[2] In questi testi non si ricercavano definizioni razionali ma si riducevano i fatti della realtà fisica a segni di un discorso divino rivolto agli uomini.[3]

Un’eclisse, il passaggio d’una cometa, un’epidemia o l’improvvisa comparsa d’uno sciame di cavallette, eventi naturali oggi ben noti ed indagati, diventavano quindi nella loro drammatica misteriosità il “segno” tangibile del castigo divino che avvertiva e puniva le nefandezze degli uomini mettendo a dura prova la fede di tutti quei cristiani ai quali era stato insegnato che la natura era creazione perfetta di Dio. Se l’eterna lotta tra il bene ed il male, tra l’estasi e l’espiazione non potevano essere evocate alle masse analfabete ricorrendo a concetti tratti dalle speculazioni del pensiero di Agostino da Ippona o di Gregorio Magno, ecco allora che la voce possente del predicatore, spesso altrettanto illetterato quanto il suo pubblico, otteneva un risultato fideistico immediato tuonando di angeli e diavoli, di paradiso e di inferno, in un turbinio di immagini variopinte e brillanti o spaventosamente tetre ed angoscianti.

Ma c’erano altre allegorie, meno banalizzanti se vogliamo, ricche anzi di sottigliezze psicologiche, che messe a disposizione delle arti figurative avevano raggiunto effetti addirittura subliminali. Una tra le tante ebbe particolare fortuna ed ampia diffusione tra il VII ed il XIV secolo: era la raffigurazione di San Giorgio che uccide il drago e libera la fanciulla incatenata. Il santo, a seconda delle circostanze e del momento storico in cui veniva raffigurato, poteva rappresentare la Fede che uccide l’Eresia e libera la Chiesa in catene, oppure la purezza che sconfigge il peccato e trae l’anima dalla prigionia o ancora, più laicamente, il condottiero che schiaccia il tiranno e affranca il popolo dalla servitù, l’eroe che scende nella caverna dell’inconscio, uccide il mostro, libera la razionalità tenuta prigioniera e la riporta al regno della coscienza.[4]

San Giorgio ed il drago - Chiesa di San Giorgio, Vigevano, prima metà XV sec.
San Giorgio ed il drago – Chiesa di San Giorgio, Vigevano, prima metà XV sec.

Famosa era poi la complessa simbologia dei numeri che, seguendo le antiche tradizioni della scienza assiro-egizia prima e della filosofia pitagorica poi, costituivano una chiave d’accesso privilegiata alla comprensione delle leggi armoniche dell’universo assegnando loro un valore assoluto da porre in relazione all’ordinamento cosmico divino che governa rigorosamente il “sistema del mondo”.[5] In questa prospettiva i numeri non potevano essere intesi solo quali strumenti utili all’uomo per dare ordine all’ambiente che lo circondava ma erano autentica rappresentazione dell’assoluto. Essi lasciavano trasparire, per chi era in grado di coglierla, una “armonia” sovrumana legata da un filo unico alle angosce, ai dubbi, alle speranze, alle emozioni ed ai rigori, alle passioni terrene e alle esperienze trascendenti dell’uomo. I numeri divenivano quindi “sacri” e si caricavano di valenze religiose e fideistiche: in primo luogo Dio, ovvero l’Uno “originario”, l’essere, la luce e la divinità; il Tre, ovvero la perfezione trinitaria, la sintesi cosmologica della nascita, zenit e tramonto o dei tempi, il passato, presente, futuro. Aggiungiamo il Due, l’anima e il corpo, il bene ed il male, il Cristo e la sua Chiesa, oppure il Sette, i giorni della creazione, l’ordine completo, la fine del movimento, senza dimenticarci della triste ed ambigua fama che circondava il numero Mille.[6]

L' Aritmetica e la Geometria – Miniature dal “Computus correctorius” – Londra, British Library, prima metà del XIII sec.
L’ Aritmetica e la Geometria – Miniature dal “Computus correctorius” – Londra, British Library, prima metà del XIII sec.

Questo numero è il simbolo della totalità e della perfezione” aveva scritto Oddone, abate di Cluny, seguendo una tradizione che si fondava sul capitolo venti del libro dell’Apocalisse. “E’ una figura – aggiungeva – che si erge in altezza partendo dal quadrato di dieci per dieci: è un rettangolo che si ottiene moltiplicando ancora per dieci quel quadrato. L’idea di perfezione e pienezza che accompagna questo numero fa pensare che nell’anno mille dell’incarnazione di Cristo comincerà, con l’avvento dell‘Anticristo, la fine del mondo“.[7] Ma nell’anno 1000 non accadde alcunché come aveva predetto due anni prima Abbone di Fleury: “Basta aprire la Bibbia per constatare come Gesù abbia detto che mai si sarebbe saputo il giorno, né l’ora”[8]. I lugubri racconti sulle angosce ed i terrori millenaristici che avrebbero percorso in quegli anni la cristianità nasceranno solo nel XVI secolo, figlie di una cultura umanistica che disprezzava profondamente i cosiddetti “secoli barbarici” e saranno ripresi ed ampiamente diffusi poi dalla storiografia romantica del XIX secolo.

I terrori dell'anno mille -Giotto, Giudizio universale Inferno-Padova, Cappella degli Scrovegni
I terrori dell’anno mille -Giotto, Giudizio universale Inferno-Padova, Cappella degli Scrovegni

In realtà le cronache scritte attorno al Mille nulla ci narrano di questa paure collettive.[9] Non erano solo i numeri ma anche le figurazioni geometriche, ed in particolare la loro trasposizione in campo architettonico, a rivestire un’enorme importanza nella cultura artistica medioevale. Non per nulla uno storico come il Duby affermava che in quei secoli “con i ritmi e le strutture numeriche dei differenti elementi che compongono il cosmo, il monumento o l’opera d’arte offrono una spiegazione del mondo“.[10] Tra i tanti esempi di figure geometriche simbolicamente assurte in quei secoli ad “exemplum aeternum“, immagine cioè che scandisce i ritmi universali, ne citiamo due soltanto: l’Esagono, ovvero il fine compiuto, i giorni della Creazione divina, l’anima e l’Ottagono, simbolo della perfezione ideale, del cosmo spirituale, l’ottavo giorno della settimana, il nuovo giorno in cui, dopo la resurrezione di Gesù e quella dell’umanità, inizia l’era del Cristo.

Non a caso lo schema planimetrico della pianta ottagonale, originariamente voluta nel IV secolo da Sant’ Ambrogio per il milanese San Giovanni alle Fonti, trovò ampia diffusione in area padano ambrosiana, dove venne utilizzato per quel particolare edificio sacro che era il battistero “extra ecclesiam“, costruito cioè a sé stante nei pressi dalla chiesa.[11] Questi erano edifici di pertinenza delle “plebs” o pievi, di quelle chiese che, rette da un arciprete a capo di una comunità di “presbiter”, di chierici e diaconi, godevano del “jus baptizandi“, il diritto di somministrare il primo e più importante sacramento cristiano,  in estrema semplificazione quelle che noi oggi chiameremmo chiese parrocchiali.

Le Pievi erano sorte a partire dal V-VI secolo nei pressi dei “pagi“, i villaggi più densamente popolati ed ovunque vi fossero comunità rurali di una certa consistenza, con lo scopo di diffondere anche nelle campagne il messaggio evangelico di cui sino a quel momento avevano beneficiato soprattutto le popolazioni urbane. Centri di missione, di irradiazione della fede quindi, ma con l’andar dei secoli ed il precipitare della dissoluzione politico-militare di ciò che restava dell’antico ordine romano, anche punti di riferimento amministrativo e giuridico per le popolazioni del territorio circostante.[12]Alcune chiese pievane, o “baptisimales“, sicuramente erano presenti anche nella Lomellina di quei secoli, ma la loro identificazione oggi è da accettarsi con estrema prudenza stante l’assenza di studi organici e delle ancora ampie lacune documentarie.

La frammentaria storiografia locale ne elenca almeno una decina di matrice pavese, giurisdizionalmente cioè soggette all’autorità del Vescovo di Pavia, e precisamente: Santa Maria di Lomello, Santa Maria di Velezzo, Santa Maria di Breme, Santa Maria di Pieve del Cairo,[13] Santa Maria di Sparvara,[14] Sant’Alessandro di Carosio,[15] San Pietro di Cilavegna,[16] Santa Maria di Sommo,[17] Santa Maria di Dorno[18] e Santa Maria di Pieve Albignola.[19] Tre sarebbero invece di origine vercellese: Santa Maria e Sant’Eusebio di Gambolò,[20] Sant’Albino di Mortara, il San Vittorino di Cozzo[21]. Infine altre quatto sarebbero di origine novarese: Santa Maria di Gravellona,[22] San Giovanni Battista di Cassolo Vecchio,[23] San Pietro di Treblate[24] ed infine il tanto discusso San Pietro di “Vico Masuinco[25]. Si tratta comunque d’un elenco frammentario che prende in considerazione le memorie ed i documenti di un periodo piuttosto ampio che va dal VI all’XII secolo. Pur omettendo il controverso Sant’ Ambrogio di Vigevano, milanese prima e novarese poi ,[26] a titolo puramente personale, non mi sentirei neppure di escludere ad esempio le antichissime San Vittore della Belcreda (novarese),[27] il San Michele di Sant’Angelo Lomellina (vercellese),[28] nonché il San Marziano di Mede (tortonese).[29]

Che poi tutte queste chiese possedessero un battistero “extra ecclesiam” possiamo solo ipotizzarlo. Infatti, oltre a quelli tuttora esistenti di Lomello, Velezzo e Breme, vi sono certezze solo per quelli di Pieve del Cairo,[30] di Pieve Albignola, di Dorno, di Gravellona,[31] e di Sant Angelo Lomellina, i resti dei quali risultano ormai inglobati in altri edifici, come nel primo caso, o addirittura scomparsi nel corso degli ultimi due secoli. Ciò che comunque si conserva, pur così sconosciuto e trascurato dal grande pubblico e dalle correnti turistiche anche locali, rappresenta uno dei momenti più significativi ed importanti dell’arte in terra lomellina ed avremo modi di parlarne in uno dei prossimi “quaderni”.

Atto del 963 dove compare Grauso, arciprete della Pieve di S. Pietro in Vico Masuinco e custode della chiesa di S. Ambrogio di Vicogebuin
Atto del 963 dove compare Grauso, arciprete della Pieve di S. Pietro in Vico Masuinco e custode della chiesa di S. Ambrogio di Vicogebuin

[1] cfr. LE GOFF J.- “La civiltà dell’Occidente medievale” –  Torino, 1981 oppure PASOTOREAU M. –  Medioevo Simbolico – Bari, 2015

[2] Oltre al “Phisiologus” di anonimo autore greco del II o III secolo d.C. , una notevole influenza sul pensiero simbolico medioevale ebbero anche trattati come il “De planctu naturae” di Alain de Lille, l'”Hortum deliciarum” di Herrada di Landsberg, il “Liber divinorum operum simplicis homminis” di Hildegarda von Bingen, il “Libro delle Meraviglie” dello scrittore arabo Ibn Zohr. Fonti indiscusse del simbolismo cristiano sono invece l’”Etymologiarum” di Isidoro di Siviglia, il “In Hierarchiam celestem commentaria ” di Hughes di St. Victor, la “Carta LV” di S. Agostino e il “De Rerum Naturis” di Rabano Mauro.

[3] cfr. ECO U. – “Il Segno” – Milano 1973 e CHARBONNEAU-LASSAY L. – “Il bestiario di Cristo” – Milano 1994

[4] Nel VII sec. Gregorio Magno scriveva al vescovo Sereno di Marsiglia: “…una cosa è adorare una pittura, e altra cosa è apprendere attraverso una scena rappresentata in pittura ciò che si deve adorare. Poiché ciò che lo scritto procura alle persone che sanno leggere, la pittura lo fornisce agli analfabeti che la guardano; inoltre questi, indotti, vi vedono ciò che devono imitare, le pitture sono la lettura di coloro che non sanno leggere.” cfr. MENOZZI D. – “Le immagini. La Chiesa e le arti visive” – Milano 1996

[5] cfr. AA.VV- Lessico dei Simboli Medievali – Milano 1989

[6] cfr. WEINREB F. – “Das symbolische Universum” – Reinbek 1978.

[7] cfr. CANTARELLA G.M. – “I monaci di Cluny” – Torino 1993.

[8]  Il passo a cui si riferisce l’abate di Saint-Benoît-sur-Loire nel suo Liber Apologeticus è nel Vangelo di Matteo 24,42-51:“Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”.

[9] cfr. DUBY G. – “L’Anno Mille. Storia religiosa e psicologia collettiva”- Torino, 1976,  POIGNON E. – “La vita quotidiana dell’Anno Mille” – Milano, 1989 e DUBY G. –  FRUGONI C. –Mille non più mille Viaggio tra le paure di fine millennio”. Milano, 1999

[10]  cfr. DUBY G. – “San Bernardo e l’arte cistercense” – Milano 1989 ma anche CECCHELLI C. – “Caratteri del sec. VII in occidente” – Spoleto 1958,  HUIZINGA J. – “L’autunno del Medioevo” – Firenze 1940 e CORRADETTI D. – CHIOCCHETTI G. “ Le forme e il divino. Elementi di geometria sacra” – Torino  2009.

[11] Per Sant’Ambrogio (IV sec.) il sacramento del battesimo era carico di significati simbolici da leggersi nel senso della rinascita ad una nuova e più consapevole vita, arricchita dalla conversione, ma anche nel senso del “passaggio”, il cambiamento del battezzando che affronta prima la morte del “vecchio sé” e la successiva “resurrezione e scriveva: “[…] era giusto che l’aula del Sacro Battistero avesse otto lati, perché ai popoli venne concessa la vera salvezza quando, all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte.”

[12] crf. CROVELLA E. – “La Chiesa Eusebiana dalle origini alla fine del secolo VIII” – Vercelli 1968″(…) E’ infatti nel V secolo che tale passaggio si sviluppò con rapido moto nelle regioni nord-italiane e galliche, e rese urgente la costituzione di comunità cristiane nei borghi e nei villaggi con l’erezione di chiese battesimali e di cappelle officiate da presbiteri stabilmente residenti. Il termine “plebs”, che volgarmente equivale a plebe, popolo, volgo, assume allora un significato speciale nel linguaggio ecclesiastico, e fu usato esclusivamente per indicare una comunità rurale giuridicamente costituita dall’autorità diocesana (…) Più tardi il termine “plebs” assume il significato esclusivo di comunità rurale cristiana con tutti gli elementi costitutivi, cioè il sacro edificio munito di battistero o una cappella destinata alle funzioni festive, la residenza dei presbiteri ed una popolazione stabile. Nell’ambito di una pieve potevano sorgere anche più cappelle od oratori, uniti alla chiesa pievana con vincoli di dipendenza (…).”

[13] cfr. PONTE G. – “Relazione delle scoperte archeologiche di Pieve del Cairo” – Mortara 1909. I resti del complesso del Cairo vennero riportati alla luce nel 1908 nel corso di scavi che intestarono l’area compresa tra il campanile dell’attuale parrocchiale e la prospiciente casa prepositurale. Più che la struttura stessa dell’edificio, un’unica navata di proporzioni ridotte terminante con abside semicircolare munita di lesena centrale, destò grande interesse il ritrovamento tra le fondamenta di abbondante materiale di spoglio composto prevalentemente da opere laterizie romane, resti di colonne e mensole marmoree con avanzi epigrafici riferibili al consolato di Paolino juniore. Di grande interesse anche un ampio tratto di pavimentazione marmorea ad esagoni neri alternati a triangoli bianchi, assegnato alla seconda metà del VI secolo. Nei pressi dell’edificio venne inoltre rinvenuto un frammento recante “nel principio dell’iscrizione una M, alta 10 cm.” Doveva appartenere – interpretava arditamente il Ponte – a un monumento di eccezionale importanza dell’età di Traiano (…). E allora non dubito che (l’iscrizione) debba integrarsi come M(atri) – D(eum) – M(agne) e riferirsi ad un monumento dedicato alla dea Cibele.” Recentemente i resti delle strutture murarie di S. Maria di Pieve del Cairo  (cfr. CARAMEL L. – “Storia di Monza e della Brianza” Milano 1976), sono stati posti in relazione con la chiesa di Sant’ Eufemia di Oggiono, edificio altomedioevale (VI-VII secolo) ampiamente rimaneggiato nei secoli successivi.

[14] Del borgo di Sparvara (“Sparvaria”), località posta tra Pieve del Cairo e Gambarana, si hanno notizie dal 1191, quando viene citato in un diploma di Enrico VI tra le novantanove terre costituenti il distretto di Pavia (cfr. COLOMBO A. – “Cartario di Vigevano e del suo Comitato” – Torino 1933, doc. LXIII). Scomparve, totalmente rovinato da una inondazione del Po, nel 1716.

[15] La Pieve di Carosio, località da identificarsi con l’attuale cascina di S. Alessandro nei pressi di Zeme, affonda le sue incerte origini nei primi secoli del cristianesimo rurale lomellino (VI-VII secolo). Ampiamente citata in diplomi e documenti dal IX al XIII secolo, questa Pieve fu sede di arcipretura sino alle soglie del 1400 ed estendeva la sua giurisdizione alle chiese di San Michele e di Santa Maria del Castello di Valle Lomellina, sul San Salvatore e sul San Michele di Olevano, nonché su Santa Maria di Zeme. Negli atti pavesi relativi alla visita pastorale del 1460 (cfr. “Liber compilatus tempore regiminis Ven. e Circumspecti Viri D.ni Amici de Fossulanis canonici ecc.”, presso Archivio Vescovile di Pavia), si annotava che a Carosio trovavasi ancora “ecclesia S. Iohannis Baptista ubi adest bactisterium antiquum”, un battistero che secondo il Pezza ebbe pianta poligonale e scomparve sul finire del XIX secolo (cfr. PEZZA F. – “Su e giù per le antiche pievi della Lomellina” – Novara 1907 e PIANZOLA F.  e “L’arcipretura di S. Alessandro di Zeme” – Varese 1941).

[16] cfr. RAMPI R. – “Cilavegna dalle origini ai nostri giorni”- Vigevano 1965. La “plebem qui nocupator Celavinnio” è citata in un diploma del 911 quando Berengario I, re d’Italia, concedeva a Giovanni vescovo di Pavia di edificare presso la Pieve un castello a difesa dalle scorrerie degli Ungheri (Archivio Capitolare di Novara, Vol. A, n° 2). Il San Pietro di Cilavegna ha comunque origini ben più antiche (VII-VIII secolo), ampiamente testimoniate dalle strutture murarie emerse sul sedime dell’attuale chiesa parrocchiale durante i lavori di rifacimento della pavimentazione degli anni quaranta. A poca distanza da Cilavegna, lungo la strada per Borgolavezzaro, sorgeva anche la Pieve di S. Pietro di Caronno, un comunello destinato a scomparire tra l’XI ed il XII secolo, nel corso di una delle tante guerre combattute da milanesi e pavesi per il controllo della Lomellina. La Pieve di Caronno ha documenti che risalgono al 967 ed era di dipendenza novarese.

[17] cfr. BELLAZZI P. – ROMANI E. – “Gli antichi Battisteri della Lomellina” – Vigevano 1973.

[18] Pur citata la prima volta in documenti vogheresi del giugno 1187 (cfr. CAVAGNA SANGIULIANI A. – “Documenti vogheresi nell’Archivio di Stato di Milano” – Torino 1910), la “plebs Sancte Marie Durnensium” ha origini ben più antiche e sicuramente riconducibili ai primi secoli della diffusione del cristianesimo in Lomellina (V-VI secolo). Ne testimoniano l’antichità la dedicazione alla Vergine ed il fatto di essere collocata lungo uno dei più frequentati itinerari militari romani prima, di cui “Durius” o “Durnie” era una delle “mutatio” e “mansio”, e poi una tappa di quell’itinerario gerosolimitano che negli anni intorno al 1000 attraverso le Alpi, Torino e Pavia, convogliava i pellegrini dalle regioni ispanico francesi verso Roma. A sottolineare ancor più l’importanza di questa pieve di dipendenza pavese, occorre rammentare che nella prima metà del XIII secolo ad essa facevano ancora capo le chiese di numerosi borghi lomellini come il San Giorgio di Gropello, San Germano di Alagna, SS. Celso e Nazzaro di Sannazzaro, San Giuliano di Scaldasole ed il San Martino de Laveno, un comunello tra Parasacco e Garlasco (Zerbolò). La Pieve dornese sorgeva ai margini dell’antico recinto castrense di cui aveva inglobato alcuni tratti ed una torre, come nella parete di una delle navate e nella base del campanile. Era dotata di Battistero “extra ecclesiam” andato distrutto nel corso del XV secolo (cfr. PIANZOLA F. – ” Dorno: Memorie Religiose” – Vigevano 1933.

[19] La “plebs Albignola”, citata dal diploma federiciano del 1219 e da carte pavesi del 1256 (cfr. “Registri Impositiones Blandarum” presso Archivio Vescovile di Pavia), doveva sorgere verso Zinasco, sul ciglio costiero del Po, nei pressi del Monastero dedicato a “S. Honorata”, sorella del vescovo pavese Epifanio (V sec.) .

[20] L’identificazione e la corretta attribuzione della dignità pievana alle chiese di Gambolò è sempre stata oggetto di polemiche e controversie decisamente favorite dalla pressoché totale assenza o dispersione della documentazione archivistica riferibile ai secoli che dal IX vanno al XI e dall’accavallarsi sul suo territorio, almeno a partire dagli anni intorno all’VIII-IX secolo, della giurisdizione sia della Diocesi novarese che di quella pavese e forse anche di quella vercellese. Sulla scorta delle più recenti ricostruzioni (cfr. CAVANNA A. – “Sala, Fara, arimannia nella storia di un Vico longobardo” – Milano; ANDENNA G. – “Le Pievi della Diocesi di Novara” – in “Le istituzioni ecclesiastiche della Società Cristiana nei secoli XI e XII”, Milano 1977; ma soprattutto MARINONE F. – “Gambolò” – in “Novarien”, Novara 1986), è oggi comunque possibile tentare un’accettabile sintesi che prende in considerazione l’ormai accertata esistenza nell’attuale territorio di Gambolò di due distinte entità demografiche entrambe dotate di Pieve: “Campo Latus”, approssimativamente da collocarsi sull’area dell’attuale castello, e “Vico Masuinco”, che sorgeva nella zona d’incontro tra le strade comunali che collegano il borgo alla frazione della Garbana ed a Remondò. Di Vico Masuinco e della sua Pieve si hanno notizie dal maggio del 946 quando “Ildecharta filia Gotefredi de loco Masuinco qui dicitur Sancto Petro in silva et Bernardus abitator in cjvitatem novarja”, cedono a “domus Rudulfus vir beatjsimus Sancte novarja eclesie episcopus argentum pro dinareos bonos numeros ljbras decem” un “sediminas cum casis et hominibus rebus (…) in loco et fundo paljate…” (Archivio Capitolare di Novara, Vol. A, n° 9). Ancora più esplicito è il riferimento alla Pieve di San Pietro nel noto documento del marzo 963, quando “Grausus archipresbiter de ecclesia plebis Sancti Petri sita in Vico Masuinco et Custodem basilice Sancti Ambrosii sita Vicogebuin” permuta beni di quest’ultima con tal Ambrogio di “Viginti Columne” (Archivio Capitolare di Novara, Vol. L, n° 5). Poi, per quasi duecento anni, nessun documento farà più cenno a Vico Masuinco ed alla sua pieve. Ne ritroveremo le tracce in un lodo arbitrale (cfr. AA.VV: – “Le carte dell’archivio Capitolare di Santa Maria di Novara” in Boll. Soc. Sub. Storia Patria, Vol. LXXX, doc. n° 505 – Torino 1924), redatto intorno al 1185 da Oberto, preposito della Cattedrale di Tortona, e Rotefredo, canonico novarese, chiamati a dirimere una lite sorta tra S. Pietro di Vico Masuinco (diocesi di Novara) ed il monastero di S. Alberto di Butrio (diocesi di Tortona) a proposito della chiesa di S. Alessandro, possesso che viene attribuito a questi ultimi nonostante l’edificio fosse stato incluso nell’elenco dei beni appartenenti a S. Pietro ed alla Diocesi di Novara dalla bolla del giugno 1132 con la quale Papa Innocenzo III confermava al Vescovo Littefredo tutti i beni che la sua Chiesa possedeva in città e diocesi: “In Campo Latus plebem Sancti Petri, Ecclesiam Sancti Gaudentii, Ecclesiam Sancti Maioli, Ecclesiam Sancti Alexandri, Ecclesiam de Berceto et cappellam Sancti Nazarii”. (Archivio Capitolare di Novara, Vol. B, n° 55). In questo documento per la prima volta la pieve di S. Pietro viene collocata in Campo Latus, segno evidente d’una decadenza demografica e sociale di Vico Masuinco a tutto favore del vicino centro incastellato di Gambolò, dove peraltro abbiamo visto già esisteva un’altra chiesa, San Gaudenzio, pronta a raccogliere la dignità pievana, che di fatto avverrà intorno alla prima metà del XIII secolo. L’antica pieve di San Pietro verrà abbattuta nel 1740 quando, visitata dal Vescovo di Vigevano Mons. Bossi, verrà trovata cadente, con l’altare sconnesso e senza porta. Ancora più avari di notizie sono i documenti riguardanti l’altra pieve, quella di Capo Latus, nel passato variamente identificata nel chiesolo extramuraneo di Santa Maria, con una matrice milanese o pavese riferibile al VI-VII secolo (cfr. PIANZOLA F. – “Gambolò ‘campo latum'” in “Memorie religiose di Vigevano”, II – Vigevano 1934), oppure nell’antica chiesa di S. Eusebio, la cui dedicazione farebbe ipotizzare una coeva matrice vercellese (cfr. PEZZA F. – “Antiche pievi novaresi della Lomellina” – Novara 1907 e “Gambolò agli albori del ‘500” in “Il Terdoppio” 1921/1922). Commentando gli atti della visita pastorale compiuta nel 1460 dal Vicario e Luogotenente generale della Diocesi di Pavia Mons. Amico de’ Fossulanis COLOMBO A. – “Gambolò e le sue Pievi” – Vigevano 1925 scrive: “(…) E’ facile identificare tale chiesa, vera suffraganea della parrocchiale S. Eusebio, con la nota e tuttavia aperta al culto di Santa Maria fuori la porta omonima, già giurisdizione della diocesi pavese; e poiché anch’essa è extramuranea e per lo più sotto il titolo della Vergine, vi si può riconoscere la originaria pieve del nostro borgo, ammettendo il solito successivo trapasso di sede alla più tardiva di Sant’ Eusebio. E pertanto, mentre si viene in qualche modo a giustificare l’affermazione del sac. Francesco Pianzola: “vi era la parrocchia di Sant’ Eusebio extramuranea del IX secolo con tre canonici. Il titolo primitivo era di Santa Maria” (…). S. Eusebio di Gambolò, come Sant’ Ambrogio di Vigevano, non sorse punto quale vera e propria pieve, pur essendo anteriore al nono secolo; ma l’una e l’altra chiesa segnano, nel territorio loro, la rispettiva influenza dei due maggiori esponenti religiosi delle vicine sedi metropolitane e primaziali di Vercelli e di Milano. Ed entrambi avevano il proprio Battistero staccato, quello gambolese che andava sotto l’invocazione di S. Giovanni Battista (poscia cappella interna di altra chiesa), sarebbe appunto ricordato dalla chiesuola ora detta della Madonnina, situata presso S. Eusebio”.

[21]Cfr. ARNOLDI D. – “Le carte capitolari dell’archivio Arcivescovile di Vercelli” – Pinerolo, 1917: esisteva già prima del 1186, in quanto papa Urbano III nella sua bolla in data 1 giugno di quell’anno confermando ad Alberto, Vescovo di Vercelli, le pievi di quella diocesi, cita tra esse anche quella di “Cotium”.

[22] La Pieve di Santa Maria di Gravellona compare in un atto di permuta del settembre 975 con il quale Aupaldo, Vescovo di Novara, cede “pecja una de tera iurjs basiljca et plebe Sancte Marje que est constructa ipsa basiljca infra castro Gravelona”, ricevendo in cambio da Alderico “de civitate novaria (…) pecja una it est prato et in aljcum buscalja superabente (…) qui relacet in eodem loco et fundo Gravelona et nominatur Aoneto non longe da ipso castro Arderjcj. Coerjt ej da sera ipsjus basiljce Sancte Marje, da alja parte basilicjie Sanctj Martinj, et da tecja parte de heredes quondam Hubertj de loco Bercljdo (…)”.  (Archivio Capitolare di Novara, Vol.L, n° 10).cfr. COLOMBO N. – “Alla ricerca delle origini del nome di Vigevano” – Novara 1899 e COLOMBO A. – “Cartario di Vigevano e del suo Comitato”- Torino 1933.

[23] cfr. GIARDA P. – “Cassolo nella sua storia religiosa, politica, sociale” – Pavia 1980. “Cassolo”, da non confondersi con il più recente abitato di Cassolnovo (XII-XIV secolo), fa la sua comparsa in documenti novaresi del marzo 962 (Archivio Capitolare di Novara, vol. A, n° 6), quando “Odeprandus (…) de Casioli” e “Garibaldus episcopus Novarje” permutano alcuni terreni situati in Viccolonne, un vico in passato erroneamente identificato con la Buccella ma forse più correttamente da ricercare nell’attuale quadrilatero tra Battù, la Fossana, Villareale e la vallata del Ticino, e Cobrurio, località che si trovava tra Cassolnovo e Villanova. Di probabile origine romana, Cassolo sorgeva nella vallata del Ticino, nei pressi d’un guado prima e di un ponte poi che metteva in comunicazione la sponda lomellina con quella milanese del fiume. Aveva una Pieve dedicata a San Giovanni Battista, documentata già in decadenza nel 1009, quando il Vescovo di Novara sotto il cui “regime et potestate” soggiaceva, dava in permuta alcuni beni tra i quali un sedime posto tra detta “ecclesia plebis Sancti Joanni”e la “via pubblica” (Archivio Musei civici di Novara, Pergam., n° 6). Con il trasferimento della popolazione in luoghi più sicuri e lontani dalle continue minacce di guerra per il controllo del ponte, Cassolo viene progressivamente abbandonato a favore dei comunelli che erano sorti ai margini del secondo terrazzo del Ticino: Treblate, Ruinatam e Vignale. Dell’antica Pieve si conserverà memoria sino al XV secolo quando ancora Simone del Pozzo (Libro dell’Estimo) ricorda che ” si vedeva una chiesa semirotta antica, un grande argine nella valle del Ticino per la via del Porto vicino alla Roggia Mondina, e molti altri luoghi”. (cfr. BARNI L. – “Note archeologiche sulle origini di Vigevano” – Mortara 1922). Nei pressi della Pieve di S. Giovanni Battista sorgeva anche un piccolo monastero, dipendenza dell’Abbazia novarese di San Lorenzo, dov’era una chiesa dedicata allo stesso Sant’o che sempre secondo il racconto di Simone del Pozzo “era molto antica ed era anche chiamata chiesa delli bugiardi: vi si vedevano le celle antiche di quei tempi e per la sua antichità rendeva meravigliato gli spettatori (…) La distruzione fu fatta dai milanesi, come attesta la storia bossiana…”.

[24] cfr. GIARDA P. – “Cassolo nella storia ecc.” – Pavia 1980. Treblate era una località nota sin dal 902 ( cfr. COLOMBO A.- “Cartario ecc.” – Torino 1933) ma la sua Pieve, San Pietro, viene documentata per la prima volta solo nel 969, quando un diploma di Ottone I conferma ad Ingone di Belcreda ed ai suoi figli Uberto, Ribaldo e Oberto, tutti i beni da essi posseduti nel regno Italico comprese “cortem Gravalona cum castro Cassolio et Treblado” (cfr. COLOMBO A. – “Cartario ecc.” – Torino 1933).Il borgo scomparirà intorno alla seconda metà del XIII secolo, mentre già dal 1132 la dignità pievana era passata alla chiesa di San Vittore, una chiesa di cui si hanno documenti del X secolo e che sorgeva in una località prossima a Villareale detta “Ruinatam” (Archivio capitolare di Novara, vol. B, n° 55).

[25] Vedi note 16 e 22

[26] Le notizie sulla Pieve di Sant’ Ambrogio risalgono all’anno 963, quando per la prima volta viene menzionata in un atto di permuta di beni tra “Grausus archipresbiter de ecclesie plebis sancti Petri sita in Vico Masuico et Custodem basilice Sancti Ambrosij sita Vicogebuin.” (cfr. nota n° 16) Come si vede S. Ambrogio è ancora indicata come “basilica” e non come “pieve”. Le vicende e le polemiche tra gli storici locali d’inizio secolo identificazione del “San Pietro di Vico Masuinco” e quelle sulla dedicazione a Sant’ Ambrogio od a Santa Maria della primitiva chiesa pievana di Vigevano hanno trovato ampio spazio in numerose pubblicazioni ed interventi tra i quali: BARNI L. – “La Cattedrale e le primitive chiese di Vigevano” – Vigevano 1919, COLOMBO A. – “Vigevano la sua Pieve e la sua Cattedrale” – Vigevano 1922, PEZZA F. – “Gambolò agli albori del ‘500” – in “Terdoppio”, 1921-1922, PIANZOLA F. – “Il Sant’ Ambrogio di Vigevano” – Pavia 1940 e più recentemente in: RAMELLA V. – “Storia di Vigevano” – Vigevano 1972 e MARINONE F. – “Gambolò” – in “Novarien”, q. 16 – Novara 1986.

[27] Sulla chiesa di San Vittore cfr. MAFFEO E. – “La chiesa di S. Vittore in Belcreda”, in “Quaderni del Ticino” n°3 – 1983. Le vicende del “loco Belcredio” citato in un documento novarese dell’agosto 951 (Archivio del Museo Civico di Novara, Pergamene, n° 4) e corte feudale della famiglia di Ingone da Gravellona, a partire dal X secolo si intrecciano con quelle del “castro Vicogebuin” (Vigevano) sul quale gli Ingonidi avevano esteso la loro signoria. Nel corso dei secoli XI e XII, i numerosi rami originatisi da questa famiglia (i da Robbio, i da Mortara, i da Besate, i da Gravellona), estenderanno il loro dominio su gran parte della Lomellina. Un notevole contributo alla ricostruzione dell’albero genealogico degli Ingonidi è stato offerto DA: COLOMBO N. – “Alla ricerca delle origini del nome di Vigevano” – Novara 1899 e in COLOMBO A. – “Il medico aulico Guido da Vigevano e la sua famiglia”, in “Rivista di storia delle scienze mediche e naturali” – 1928

[28] cfr. PIANZOLA F. – “Sant’’Angelo Lomellina” – Vigevano 1933 . Seppur citata in carte pavesi solo a partire dal X secolo, San Michele era uno di quegli edifici pievani sorti negli anni del basso medioevo (VIII-IX secolo) a servizio delle popolazioni rurali stanziatesi sin dall’epoca romana (Cascina Olai) lungo il tratto lomellino dell’antico tracciato consolare e poi “strada romea” che, attraverso Vercelli, Mortara, Pavia, metteva in comunicazione le regioni transalpine con la Padania centrale preappenninica e l’Italia centrale. La Pieve di San Michele possedeva anche un battistero “extra ecclesiam”, un “edificiolum” che in analogia con quello di Velezzo aveva il fonte battesimale posto al centro d’una pianta circolare, e che è ancora documentato nella sua integrità nella relazione d’una visita pastorale del 1576 ed ora, dopo gli ampliamenti del XVI secolo e le trasformazioni degli anni successivi, è stato adattato a chiesa pur mantenendo la dedicazione a San Giovanni Battista.

[29] Documentata sino al X secolo nelle carte dell’Abbazia tortonese di S. Marziano (una delle prime emancipazioni del monastero benedettino di Bobbio) da cui dipendeva, la Pieve di Mede è l’antica testimonianza dell’estendersi anche in terra lomellina di propaggini della vicina Diocesi piemontese di cui S. Marziano fu il primo Vescovo (cfr. AA.VV. – “Le carte dell’archivio capitolare di Tortona” – Torino 1905/1907 e GABOTTO E. – “Chartarium Dertonese” – Torino 1919). Appartengono sicuramente a questo primitivo edificio pievano, e non ad un tempio pagano della romana “ad Medias” come spesso si è fantasticato, le fondamenta affiorate sul sedime dell’attuale parrocchiale nel corso dei lavori di rifacimento della pavimentazione eseguiti nella seconda metà dell’800. Nel X secolo la Pieve ed il monastero annesso estendevano la loro autorità sulle chiese medesi di San Martino, San Romerio, Sant’Andrea, sul San Maurizio di Castellaro, sul San Cataldo di Tortorolo, nonchè sulle “ville” di Goido e Parzano.

[30] cfr. PONTE G. – “L’antica chiesa del Cairo Vecchio” – Novara 1940. Le superstiti tracce del San Giovanni “ad fontes” di Cairo erano già state correttamente identificate dal Ponte come parti dell’attuale casa parrocchiale sin dal 1898 (cfr. PONTE G. – “Antichità Lomelline” in “Memorie e documenti per la Storia di Pavia e del suo Principato”, vol. II, fasc. IV-V – Pavia 1898). Successivamente una serie di rilievi eseguiti nel corso degli scavi del 1908 (cfr. nota n° 9), consentì di verificare l’esistenza sul sedime dell’attuale edificio prepositurale d’una struttura “a pianta quadrata ricoperta da volta a tazza, impostata al suolo. La disposizione del materiale laterizio, genere “spicatum”, nell’apparecchiatura muraria lo rivelava coevo ad altri edifici congeneri della Lomellina, come quelli di Lomello e Velezzo” (VIII-IX secolo). Gli inserti di mattoni posti a spina di pesce inoltre proseguivano in un secondo recinto murario, forse posteriore, che proteggeva l’ingresso formandone il pronao, mentre due massicci archi a pieno centro attestavano “essere stati costruiti a spese di molte tombe cristiane alla cappuccina, di cui non piccol numero andrà distrutto nel 1863 durante i lavori di demolizione del contiguo oratorio della Madonna del Campanile”.

[31] cfr. BESCAPE’ C. – “Novaria seu de Ecclesia Novariensi” – Novara 1788 in: CALVI C. – “Cenni storici sulla Lomellina” – Mortara 1874. “Gravalonae jus plebis antiquum non lego…sed habere tamen videtur…fecit vero baptisterium ibi primarium templi forma S.Joanni dicatum, et ad luce visitur; licet nunc diverso usui sit, et post ecclesiam: quod tamen prius de more fuit ante illius fores. Dicitur hic Parrochus Archipresbyteri nomen habuisse.”