La peste del 1485 nel Ducato di Milano: dal poema di Bettino da Trezzo alle corrispondenze temporali con il ciclo di affreschi dell’Oratorio dei Disciplini di Clusone

I QUADERNI DELLA SOCIETÀ STORICA VIGEVANESE

Numero 1

Giovanni Borroni

Non è casuale che riferimenti ad epidemie, in questo periodo di pandemia da Covid-19, vengano proposti alla considerazione o attraverso opere storiche, come nel caso della peste di Atene di Tucidide, o di carattere letterario come nel caso della Peste Nera del Trecento presa a pretesto da Boccaccio per il Decameron, o attraverso un romanzo storico come i Promessi Sposi, od ancora un romanzo come La Peste di Camus.Altre fonti, meno note, presentano una commistione tra genere letterario e storia, o meglio, tra poesia, cronaca e storia, come nel caso fornitoci nell’opera di Bettino da Trezzo, poeta che visse nel Ducato di Milano nella seconda metà del XV secolo.Bettino Uliciani da Trezzo compone nel 1488 Letilogia, un poema in seimilatrecento endecasillabi sulla pestilenza che tre anni prima, nel 1485, aveva devastato il Ducato di Milano (1). La sua opera, in dieci canti, fu messa a stampa per i tipi di Antonio Zarotto e fu dedicata al cardinale Ascanio Maria Sforza (1455-1505) (Fig.1), fratello minore dei duchi Galeazzo Maria Sforza e Ludovico il Moro.

fig. 1
Autore anonimo lombardo (1484-1490). Ritratto del cardinale Ascanio Maria Sforza Visconti (?). Museo Poldi Pezzoli. Milano. Il cardinale, nato a Cremona nel 1455, morì di peste a Roma nel 1505.Il profilo, inciso nitidamente sul fondo scuro, l’accuratezza dell’esecuzione, la complessiva coerenza formale associate ad una silenziosa sobrietà del tratto, suggeriscono un’ascendenza, se non un’autografia, foppesca o mantegnesca del ritratto.

Bettino da Trezzo ebbe sedici figli tra il 1466 ed il 1484, di cui solo tre gli sopravvissero: non è noto quanti siano stati vittime della peste. Da Pavia, città in cui Bettino risiedeva e su cui ci fornisce precise notizie (2), durante la pestilenza del 1485 si rifugia in campagna, fuori città, e poi riesce a trasferirsi a Milano con grande difficoltà, “cum astutia et spesa” (3). Nel 1488 scrive il suo poema dal titolo Letilogia, incentrato sulla peste del 1485. Bettino da Trezzo ricrea un colloquio con la Morte che ha fatto della peste lo strumento (“magistra ch’a fatto l’maleficio”) della punizione celeste. Il poema Letilogia, Discorso sulla Morte, è opera di non rilevante pregio poetico, tuttavia ci offre uno spaccato storico della società della seconda metà del XV secolo nel Ducato di Milano. La diffusione della peste viene descritta nella localizzazione delle aree maggiormente colpite, Milano, Pavia, Lodi, Como, e nel suo capillare diffondersi nella popolazione. Le città sono svuotate, le chiese deserte, chiusi i commerci. Tutto è abbandono e devastazione. Si odono ovunque i tintinnii dei campanelli dei “sottrattori”, le sirene delle ambulanze di questi giorni di pandemia. Il lugubre lavoro dei “sottrattori” viene descritto con dovizia di particolari nel trasporto e nel seppellimento dei cadaveri sfigurati dal morbo, e nei furti e nei saccheggi domiciliari, senza rispetto per i beni e le proprietà.
Il Ducato di Milano era caratterizzato, già dall’epoca viscontea, da un’eccellente organizzazione preventiva nei confronti delle epidemie e delle pandemie da peste, così come gli altri stati rinascimentali del Nord Italia. Queste caratteristiche continuarono anche nel periodo sforzesco, dopo il 1450. Le misure preventive erano talmente ritenute fondamentali, che il medico genovese Giovan Agostino Contardo a proposito dell’epidemia del 1576, in un suo breve trattato, su “Il modo di preservarsi e curarsi dalla peste”, riferisce che “la parte preservativa è più nobile assai e più necessaria che la curativa” (4).
In tema di prevenzione, la capitale del Ducato sforzesco aveva provveduto, nel 1485, a tenere i ricoveri per i pazienti comuni distinti da quelli per i malati di peste: oggi diciamo che aveva creato “accessi separati”. L’area della chiesa di San Gregorio Magno fu la sede sulla quale si diede inizio nel 1488 ai lavori per la costruzione del Lazzaretto Grande, impresa equivalente all’odierna rapida realizzazione di strutture sanitarie per le terapie intensive. Il cardinale Ascanio Sforza, cui il poema, non senza piaggeria, era stato dedicato da Bettino da Trezzo, aveva stanziato e promesso, a tale proposito, una donazione di quattromilaottocento lire imperiali, mai versate o andate a buon fine.
Il fatto che Giovanni Matteo Ferrari da Grado, archiatra dei duchi di Milano, e professore nell’Università pavese fosse “zelatore della sanitate”, proverebbe che la competenza medica fosse messa al servizio degli Uffici della Sanità. Tuttavia, potrebbe anche significare che l’efficienza amministrativa degli stati italiani del Nord nel Rinascimento, in particolare Ducato di Milano, Genova, Repubblica di Venezia e Toscana medicea, prevedesse nell’organico delle Magistrature Sanitarie, accanto alla prevalente componente amministrativa di comuni cittadini e nobili, in minor misura, rappresentanti della professione medica (5).
Più che per il suo intrinseco valore poetico, il poema di Bettino da Trezzo è da analizzare perché esprime la visione dell’autore secondo cui le nefandezze dell’umanità sono la causa della punizione celeste.
Nessuno è risparmiato:
“poeti, bogiardoni et oratori/legenti, interpretanti e glossatori/studenti, disputanti et presidenti/ scriptori et abachisti et registranti/mercadanti, artesani, borghesani/li judicanti et tutti gli officiali et deputati/ostari, tabernari, hospitalieri/heretici, maligni et strozzatori…” (3).
La “livella” accomuna tutti.
Il poema di Bettino da Trezzo descrive le stesse paure, le stesse solitudini della morte e lo stesso pervasivo diffondersi della pandemia, unite all’incertezza per il domani, che noi viviamo oggi. Tuttavia, la differenza rispetto ad oggi consiste nel fatto che ci è totalmente estranea l’angolatura moralistica che fa ritenere gli eventi causa di una punizione divina.
L’opera di Bettino, nata dal terribile evento della peste del 1485, trova una precisa corrispondenza nei cicli pittorici dei Trionfi della morte e le Danze macabre del Tre e Quattrocento, anch’esse originate dal ripetersi di pestilenze e dalle considerazioni sulla labilità della condizione umana da esse conseguenti.
Le epidemie e le pandemie storiche, soprattutto peste e colera, ma anche sifilide, tifo e tubercolosi, fornirono occasioni per composizioni letterarie, come nel caso qui considerato della Letilogia di Bettino da Trezzo.
Ne sono testimonianza affreschi in Camposanti e su pareti di chiese di epoca basso medievale e quattrocentesca in Italia e a nord delle Alpi (6). Esempi impressionanti sono forniti dal Trionfo della Morte di Buonanno Buffalmacco, nel Camposanto di Pisa (1336-1341); dall’affresco dell’Oratorio dei disciplini di Clusone (1485) del clusonese Giacomo Borlone de Buschis; e dal Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis a Palermo (1446 circa).
Proprio al 1485 data l’esecuzione del Trionfo e la Danza della Morte di Clusone, ciclo di affreschi sull’esterno dell’Oratorio dei disciplini (7). I tre registri su cui il Trionfo clusonese si sviluppa sono quello superiore, in cui è descritto il Trionfo della Morte, quello medio, della Danza macabra ed il residuo di quello inferiore con la rappresentazione parziale dei Dannati e dei Giusti. Nel registro superiore (Fig.2), la Morte tiene un cartiglio in cui tra l’altro si legge: “ogni omo more e questo mondo lassa/chi ofende a Dio amaramente pasa 1485”.

fig. 2
Giacomo Borlone de Buschis. Ciclo di affreschi dell’Oratorio dei disciplini di Clusone (registro superiore). Il Trionfo della Morte (1485)

Dunque la precisa datazione dell’affresco clusonese lo rende coevo con la peste descritta da Bettino da Trezzo nel suo poema Letilogia. Che l’occasione dell’affresco di Giacomo Borlone de Buschis sia la peste, è confermato dal fatto che nel sepolcro marmoreo, su cui ritta trionfa la Morte, sono distesi i corpi di grandi illustri uno dei quali, a sinistra, sarebbe stato identificato con papa Sisto IV, che sarebbe morto appunto di peste. Tuttavia si sa che, dopo lunga malattia, egli non morì rapidamente come nel caso della peste, ma a seguito di “febbre persistente” (8). Il monumento funebre del Pollaiolo ne ritrae superbamente le fattezze (Fig.3).

fig. 3
Antonio Benci, il Pollaiolo. Monumento funebre di Sisto IV (1484-1493), bronzo, particolare. Basilica di S. Pietro, Città del Vaticano, Tesoro di San Pietro.

Un altro illustre personaggio rappresentato davanti al sepolcro in atteggiamento di offerente è un doge, verosimilmente Giovanni Mocenigo, morto di peste nel 1484. Il doge Mocenigo era già scampato ad un primo contagio nel 1476, anno in cui perse la moglie. La puntuale rappresentazione del Doge, in questo affresco, ci dice che la Repubblica di Venezia era stata pure interessata dalla pestilenza in quei precisi anni (Fig. 4).

fig. 4
Gentile Bellini. Ritratto del doge Giovanni Mocenigo. Tempera su tavola (1478-1484). Museo Correr, Venezia

Piuttosto curioso risulta il fatto che nell’affresco è raffigurato un solo personaggio femminile e non sono raffigurati poveri e malati.
Un altro capolavoro che ha per tema il Trionfo della Morte è rappresentato dal grande affresco di Palazzo Abatellis a Palermo. L’affresco (Fig.5), di Autore ignoto (che ci guarda però insieme con l’aiutante dall’angolo sinistro dell’affresco), misura 600×642 cm.: è l’espressione più alta del periodo siciliano tardo-gotico internazionale, caratteristico dei regni di Ferdinando I (1412) e di Alfonso V d’Aragona. Quest’ultimo nel 1416 fece di Palermo il punto di partenza per la conquista del regno di Napoli. In questo affresco, oltre a re, imperatori, cavalieri, nobili, vescovi e prelati, sono raffigurate anche donne elegantemente e riccamente vestite, e povera gente che implora la Morte di porre fine alle proprie sofferenze.

fig. 5
Autore ignoto. Il Trionfo della Morte. (Circa 1450). (600×642 cm.). Palazzo Abatellis e Galleria Regionale della Sicilia, Palermo.

Non si può escludere, come del resto sostenuto da Renato Guttuso, che il grande affresco palermitano, sedimentato profondamente nella sensibilità di Pablo Picasso, sia stato fonte di ispirazione per la sua Guernica e per la sua rapida realizzazione dopo il bombardamento della città basca nel giugno 1937 (Fig.6).

fig. 6
Pablo Picasso. Guernica. 1937. (349,3×776,6 cm.).Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia. Madrid.

Anche Pietro Bruegel il Vecchio può aver tratto, per il suo Trionfo della Morte (1562), ispirazione dal grande affresco palermitano. Bruegel visitò infatti Palermo intorno al 1552.
L’affresco palermitano era stato iniziato nel 1446, alcuni anni dopo che il Palazzo Sclafani era stato convertito nella sede dell’Ospedale Grande e Nuovo. Questo ospedale fu creato espressamente per i malati indigenti della città. Il povero che, durante il ricovero, fosse passato davanti all’affresco nel cortile dell’Ospedale Nuovo, manteneva la speranza, oltre che in una vita ultraterrena priva di sofferenze, in un’accoglienza caritatevole e solidale.

BIBLIOGRAFIA

  1. Bettino da Trezzo. Letilogia. Milano, 1488.
  2. S. C. Isella. Pavia regal stantia, antiquamente/richa et superba assai. L’immagine di Pavia nella quattrocentesca Letilogia di Bettino da Trezzo. Bollettino della Società Pavese di Storia Patria, 2013.
  3. G. Lopez. Leonardo e Ludovico il Moro. La roba e la libertà. Mursia Ed., Milano, pp.35-37,1982.
  4. G. A. Contardo. Il modo di preservarsi e curarsi dalla peste. p.5, 1576.
  5. C. M. Cipolla. Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento. Il Mulino, Bologna. p.20, 1985
  6. P. Scaramella. Atti del Convegno internazionale di Studi sulla Danza macabra e Trionfo della morte. In: Temi macabri italiani dall’età federiciana all’umanesimo. Clusone, pp.109-144, 1999.
  7. A. Previtali. La scuola dei disciplini di Clusone nei secoli XV e XVI. Atti del Convegno internazionale di Clusone. Presservice, pp. 315-330, 1997.
  8. L. von Pastor. Storia dei Papi dalla fine dell’età Medioevale. II, p. 387, 1886-1933.