Fluidità ed evanescenze dialettali in Lombardia tra XX e XXI secolo

Il dialetto Vigevanese e l’areale del Lombardo Occidentale

Atti del I Convegno Internazionale di Dialettologia – Vigevano, 20 maggio 2023

Poco agevole è stato per me scegliere il locus amoenus, cioè l’accogliente contenitore, quale può essere un titolo, per il Convegno e per questi Atti Fluidità ed evanescenze dialettali in Lombardia tra XX e XXI secolo. Il dialetto vigevanese e l’areale del Lombardo Occidentale. Come si può intuire, il luogo felice dei dialetti oggi non esiste. Ho proposto un titolo non tellurico, ma liquido, dall’evanescenza impalpabile, definibile come evaporazione, non definitiva forse, con possibilità di scambio reversibile tra stato gassoso e stato liquido, auspicabilmente.


Dopo questa premessa, un ringraziamento caloroso e doveroso da parte mia va alla Fondazione di Piacenza e Vigevano per il generoso finanziamento che ha reso possibile tutto questo; al Comune di Vigevano per il suo patrocinio; al Comitato Scientifico e alla Segreteria Organizzativa; al professor Marco Savini, così prezioso nel fornire i contatti con alcuni relatori; alla dottoressa Francesca Linsalata per la sua attenta, professionale, scrupolosa funzione redazionale; al signor Flavio Ambrosetti della Tipografia LitoNord di Parona; agli amici del Consiglio della Società Storica Vigevanese e ai membri del Collegio dei Probi Viri per il loro aiuto.


Ma la più profonda gratitudine va ai relatori, autori dei saggi, che hanno contribuito al successo del Convegno e ora a quello degli Atti. Un Convegno dai contenuti forse eccessivamente specialistici, come non pochi mi hanno fatto notare. Ma chi si giova dell’ascolto di argomenti noti, palatabili e facilmente digeribili, se non chi si appaga ed è soddisfatto dal sentirsi blandire con argomenti noti e alla portata delle proprie conoscenze?
Ho il piacere e l’onore quindi di presentare gli Atti del convegno in queste mie poche paginette.


L’apertura del Convegno e degli Atti è stata affidata alla Prolusione del professor Angelo Stella con il suo
“Musei o tombe delle lingue degli italiani?”. La prolusione è accorata e dolente nello stesso tempo, critica.
Velata, tuttavia, da una nostalgia lungimirante (se mi si vuol far passare l’ossimoro), atta a creare per i dialetti la proposta per “un silenzioso (mediaticamente parlando) archivio delle voci”. Una serie di preziosi interrogativi su ciò che è stato fatto, a sproposito, per i dialetti italiani, e ciò che non è stato fatto per preservarne la memoria e la sussistenza. Troppo tardi? Speriamo di no. La stampa di questi atti ne ripropone e sostiene la vitalità attraverso il sentimento, l’affetto e il rigore scientifico.


Il professor Riccardo Regis, nel suo lavoro “Italiano e dialetti, oggi. Osservazioni sparse sul Nord-Ovest”
analizza il problema dei rapporti tra dialetti e lingua da un punto di vista sociolinguistico, riconoscendo a
dialetti e lingua pari dignità. La differenza non consiste nell’aver prodotto per la lingua espressioni scritte
di una tradizione letteraria, ma si colloca sul piano sociale, non avendo i dialetti avuto modo di produrre
elaborazioni tali da essere utilizzati in ambiti istituzionali e tecnico-scientifici. Riccardo Regis produce una
ricca serie di analogie del vigevanese con il lomellino (per i quali non voglio sottrarre al lettore il piacere
della sorpresa). Attraverso queste affinità con il piemontese, soprattutto documentabili nella parte nord-occidentale della Lomellina confinante con il novarese, nella parte occidentale della Lomellina confinante
con il vercellese e nella parte meridionale confinante con l’alessandrino, l’Autore configura l’ipotesi sia di
un piemontese-lomellino fortemente influenzato dal lombardo occidentale, che di un lombardo occidentale fortemente influenzato dal piemontese.


Il professor Michele Loporcaro con il suo “Mutamento linguistico e dinamiche areali nei dialetti lombardi:
conservazione e innovazione” ha il grande merito di aver riproposto la continuazione, con l’Università di
Zurigo, del progetto originario che aveva visto, proprio un secolo fa, a Vigevano il 15 e 16 marzo 1921,
il giovane professor Paul Scheuermeier svolgere la sua indagine sul dialetto vigevanese, permettendo ora
di valutare la situazione innovativa del lombardo occidentale a un secolo di distanza. L’A. analizza per
esempio l’ausiliazione perfettiva, cioè l’uso degli ausiliari avere ed essere nei tempi composti: il primo selezionato per i verbi transitivi e intransitivi inergativi (verbi intransitivi in cui il soggetto si comporta sintatticamente come il soggetto dei verbi transitivi: es. “ho corso, ho camminato”); il secondo per i verbi
intransitivi inaccusativi (es. “sono arrivato”). Per la quantità vocalica distintiva è il lombardo orientale a
collocarsi in vantaggio per il mutamento. Per definire meglio i rapporti tra innovatività e conservatività,
conclude Loporcaro, nell’areale dei dialetti lombardi, bisognerà analizzare compiutamente i risultati dei
dati sul campo del 2021 di AISdt (Atlante Italo-Svizzero digital turn) a un secolo dall’inchiesta AIS (Atlante
Italo-Svizzero) del 1921.


I dottori Lisa Gasner, Giulia Donzelli, Alice Idone e Adriano Salvi riconoscono in apertura del loro lavoro “Il
dialetto di Vigevano nei dati AIS e AIS the digital turn: uno studio sul mutamento del vigevanese negli ultimi cento anni” a Giovanni Vidari con il suo Vocabolario del dialetto di Vigevano (pubblicato postumo dalle figlie dell’Autore nel 1972) e a Luigi Rossi Casè con il suo Il dialetto popolare di Vigevano, pubblicato anch’esso postumo nel 1975 da Giovanna Massariello Merzagora, il merito di aver rappresentato i più antichi documenti sul dialetto vigevanese: rispettivamente il primo relativo al dialetto borghese e cittadino, il secondo relativo al dialetto operaio e contadino della città, “il vigevanasco volgare”, come lo definisce lo stesso Rossi Casè. Il metodo di analisi utilizzato dagli studiosi zurighesi permette un approccio strumentale per il confronto tra lo studio del 1921 e quello recente del 2021. Questo è avvenuto mediante l’utilizzo di software di analisi del parlato Praat, in cui successivamente si è provveduto a etichettare per ogni parola contenente una vocale bersaglio i diversi segmenti secondo gli standard dell’alfabeto fonetico internazionale (IPA), individuando accuratamente la vocale accentata. L’impressione uditiva è stata ispezionata sia con la forma d’onda sia con le formanti F1/F2 in Hz delle vocali visibili nello spettrogramma. Il gruppo zurighese analizza, fra gli altri aspetti, in particolare, lo sviluppo diacronico del verbo “vedere” nel vigevanese, rispettivamente nel 1921, in cui la -d- di VEDERE era eliminata o cadeva a favore dell’inserzione di una -g- epentetica (cioè inserita foneticamente all’interno della parola), e nel 2021, in cui invece ricompare come -d- di VEDERE o, almeno, coesiste con la -g- epentetica (es. 1921: a vèg pü, “non vedo più”; es. 2021: ’mi vedi, “io vedo” e anche ’me vegi).

Assai interessante l’interazione tra avverbi e negazione: Vigevano presenta negazione postverbale di tipo no, e in misura assai minore mia. Nei dati AIS (1921) era presente la sola forma no, mentre l’introduzione della forma pansettentrionale mia è di introduzione più recente (a dùrmarǫ nȍ ste’ nɔtʃ = “non dormirò stanotte”, contro un meno frequente, anche oggi, durmi’ro’mia). I ricercatori zurighesi concludono che un’erosione, ovvero l’impoverimento del lessico dei parlanti delle generazioni odierne (almeno due, n.d.r.), è reale, rispetto al 1921, dovuta a ragioni varie, ma soprattutto al disuso o all’uso limitatissimo del vigevanese al di fuori del contesto familiare e alle profonde modificazioni sociali di cui il parlante odierno è soggetto e contemporaneamente oggetto. Tale erosione si aggira a Vigevano attorno al 4% (piuttosto sorprendentemente, n.d.r.) se si considerano altri punti d’inchiesta lombardi, come Cozzo, in cui l’erosione è del 9,7%. Ciò dipende dal fatto che sia nel 1921 sia nel 2021 gli intervistati furono tutti dialettofoni: la percentuale di erosione sarebbe stata ben più alta se le interviste fossero state attuate su una popolazione complessa e varia, dato di cui gli AA. sono peraltro ben consapevoli.


La relazione del professor Massimo Vai ci propone la storia della negazione in milanese “Osservazioni sull’evoluzione della negazione in milanese in comparazione con altre varietà dell’Italia settentrionale”. La storia della negazione e della sua evoluzione è affascinante e basata sul modello tracciato da Jens Otto Harry Jespersen (1860-1943), linguista e glottologo danese, nel 1917, nel cosiddetto “ciclo di Jespersen”, che prevede il I stadio della negazione preverbale, il II stadio della negazione discontinua e il III stadio della negazione postverbale. L’A. inquadra storicamente l’evoluzione della negazione in milanese attraverso le testimonianze dell’antico volgare milanese di Bonvesin de la Riva, in cui la negazione è costantemente in posizione preverbale e migra in posizione postverbale per esprimerne l’enfasi. Il percorso diacronico sulla negazione lombarda e sulle sue modificazioni riguarda il periodo visconteo e sforzesco e, nel Seicento, quello di Carlo Maria Maggi (1630-1699), in cui la negazione è ancora preverbale o discontinua; e arriva a considerare la poesia di Carlo Maria Tanzi (1710-1762) e di Carlo Porta (1775-1821), nei quali coesistono le negazioni preverbali, discontinue e postverbali.


“Mobilità e dialetto”, del professor Glauco Sanga, ripropone in apertura del suo contributo problematiche
che risalgono all’indagine documentale di AIS su quale possa essere il dialetto di una località, in cui coesistono contemporaneamente varietà dialettali dell’arcaico, del recente, del rurale, del cittadino. Paul Scheuermeier preferiva l’arcaico, i direttori (accademici) il dialetto recente, perché esprimeva quello usato dalla maggioranza dei parlanti. Karl Jaberg e Jakob Jud sostenevano che il testimone più autentico del dialetto era forse quello del contadino autonomo, il dialetto cioè di chi viveva e lavorava tutta la vita sul proprio fondo, non certamente quello del salariato, forzato a un’elevata mobilità. Qual è quindi il rapporto fra mobilità (impossibile da escludere non solo nella famiglia ma anche e soprattutto nel singolo lavoratore-parlante, ora minatore, ora muratore, ora venditore di cappelli e di ombrelli, ora venditore di gelati) e coerente affidabilità dialettologica?
In Lombardia, Sant’Angelo Lodigiano presentava dal punto di vista linguistico una profonda dicotomia
tra gente del centro abitato, che viveva di piccoli commerci, di terziario, di espedienti, caratterizzato
da gerghi (ove l’A. cercava invece il dialetto) diversi dal dialetto della campagna circostante, dove il
bracciantato aveva una vita nomade e “tutti i contadini che lavorano in queste fattorie parlano non la
lingua di Sant’Angelo, bensì una specie di idioma comune dei lavoratori agricoli […]. Nel giorno di
San Martino cambiano spesso residenza e padrone, spostandosi fino a distanze di 50 chilometri, così
che non si può praticamente parlare di un dialetto contadino autoctono di una determinata comunità”.
La situazione linguistica e dialettale “santangiolina” non sembra molto diversa da quella della Vigevano
degli anni Venti del secolo scorso, con un dialetto cittadino più conservativo, e la variabilità della lingua
del bracciantato agricolo della campagna circostante condizionata dall’elevatissima mobilità. La cascina
stessa è un calderone di viandanti, ospiti, ambulanti, mendicanti, sbandati, stracciai, arrotini, ombrellai,
cantastorie, che condiziona e modifica, con i nuovi adstrati linguistici, il dialetto del salariato agricolo,
anch’egli peraltro poco stanziale per dover soddisfare i contratti annuali e stagionali. Le mondine della
pianura irrigua padana rappresentano il bracciantato agricolo tardo-primaverile (maggio-giugno) con
una koinè di tradizioni dialettali che hanno lasciato una profonda traccia nella cultura popolare da Ferrara
a Vercelli, a Novara, a Pavia, compresa la Lomellina. Le cause della mobilità umana sono chiare, e da loro derivano quindi la variabilità e le inconsistenze linguistiche.
Secondo Sanga, esse sono solo parzialmente dettate dalla geologia del luogo: sono dettate da cause
economiche legate all’insistenza di una famiglia su un unico svantaggioso ambito remunerativo (agricolo), o peggio al rischio di escomio per mezzadri e coloni o alla condizione precaria del salariato, esposto al massimo rischio di mobilità.


Il contributo del professor Andrea Scala dal titolo “Alcune (ri)considerazioni sui dialetti delle propaggini più meridionali della provincia di Piacenza” ci porta geograficamente di poco fuori dalla Lombardia, solo geograficamente però, in quanto come noto le delimitazioni amministrative “non sono necessariamente molto rilevanti dal punto di vista delle principali linee di frattura e discontinuità tra i dialetti italiani, e anche la provincia di Piacenza in questo non fa eccezione […]. In particolare alcune innovazioni, spinte dal prestigio di Genova, Milano e Parma, hanno raggiunto luoghi diversi nella provincia in tempi diversi e hanno così dato luogo a un intreccio di isoglosse alquanto intricato”. La parte più meridionale della provincia di Piacenza, l’alta Val Trebbia e la val d’Aveto, fino a Ottone mostra alcuni tratti dialettali liguri innovativi, ma anche caratteri conservativi, quindi non di per sé interpretabili come di carattere espansivo. Tra i caratteri distintivi del piacentino meridionale viene annoverato il rotacismo di -l-, riscontrabile in Liguria, con [ˈska:ra] “scala”, con [fiˈra], “filare”. Ma come noto il rotacismo non manca nei dialetti emiliani e nel lombardo occidentale, frequente anche a Milano (e costante e caratteristico fino a due generazioni or sono a Vigevano, n.d.r.) e in alcuni dialetti piemontesi. Secondo l’A. l’area di influenza ligure anche al nord della provincia di Piacenza potrebbe essere documentata dai toponimi fino alla pianura. Per il dialetto piacentino l’influenza ligure documentabile nelle alte valli del Trebbia e del Nure, irradiata dalla Liguria, era presente in passato anche in pianura “dove l’influsso ligure è difficilmente sostenibile”. Se è dimostrabile che sia i toponomastici sia varie tracce di ligure si ritrovano nel Piemonte e nel lombardo occidentale, fino al Canton Ticino, senza che per questo si possa implicare il ruolo guida espansivo di Genova, il termine di liguroide sembra più appropriato, come Andrea Scala cautamente suggerisce.


Il professor Giovanni Manzari nel suo “Lunghezza e nasalità vocaliche nella storia del dialetto milanese” si
propone di indagare le correlazioni di lunghezza e di nasalità nel sistema vocalico tonico del dialetto milanese, così come emergono dalla letteratura nota, sia di tipo scientifico, sia prodotta da cultori e grammatici, cui le stesse descrizioni scientifiche hanno finora attinto. Le correlazioni di lunghezza, nel milanese, sono quasi totalmente esclusive della sillaba tonica finale. Le opposizioni delle coppie minime per il milanese contemporaneo riguardano gli infiniti e i participi passati (es. /fiˈni/ “finire” ~ /fiˈniː/ “finito”), e in posizione interna voci e sintagmi come /ˈnas/ “nascere” ~ /ˈnaːs/ “naso”. Riguardo alla nasalità finale non tutte le vocali milanesi ne hanno espressione: le vocali finali di parola sono quasi sempre lunghe, ma possono essere orali e non nasalizzate; un esempio di tripletta minima è costituito da /ˈka/ “casa” ~ /ˈkãː/ “cane” ~ /ˈkan/ “canne”. Problemi fondamentali affrontati dall’A. sono la puntualizzazione dell’inventario fonematico e la grafematica tradizionali del milanese sorti nel XIII secolo e poi sviluppatisi attraverso i contributi di Carlo Maria Maggi, Carlo Porta e Francesco Cherubini, fino a Claudio Beretta alcuni decenni fa. Il Prissian de Milan de la parnonzia milanesa (1606) di Giovanni Ambrogio Biffi rappresenta, secondo l’A., la prima proposta metalinguistica sulla fonetica del milanese che riporta per la prima volta i grafemi utilizzati per la scrittura dialettale. A proposito delle vocali, esclusa la u, si fa riferimento per la prima volta a due valori, l’uno largh e l’altro strec. L’acutezza del Biffi e la sua straordinaria capacità di innovare consistono nel cogliere fenomeni che non hanno riscontro nel toscano, come la distinzione quantitativa, fonologicamente di rilievo delle vocali; e il rapporto di tale opposizione con la quantità delle consonanti che seguono la vocale e il rapporto, difficile da rilevare, di questa opposizione quantitativa con la distinzione di timbro aperto e chiuso per le vocali e e o. Secondo Giovanni Manzari è possibile tracciare, attraverso i suddetti AA. (dal XIII secolo fino a tutto il Novecento), una buona omogeneità relativa al vocalismo tonico nel milanese, in particolare alla lunghezza e alla nasalità, nonostante il generale dinamismo morfosintattico, lessicale e parzialmente fonologico del milanese. Tuttavia le due correlazioni indagate risultano oggi “neutralizzate”, almeno in posizione finale, nelle ultime generazioni di dialettofoni: le cause son da ricercare nel fatto che non solo il milanese ha risentito dell’influenza del toscano, ma la scolarizzazione, l’industrializzazione e i mass media della seconda parte del XX secolo hanno portato all’abbandono di caratteristiche importanti del dialetto milanese, che pure si erano conservate per circa sette secoli. Gli stessi recentissimi contributi scientifici di Giovanni Manzari (2021) ne danno testimonianza, anche con non irrilevanti dati, in parte inaspettatamente indipendenti dall’età dei parlanti intervistati.


Il contributo del professor John B. Trumper “Il contatto celtico-romano nell’antichità dialettale lombarda:
livelli grammaticali, lessicali e loro rilevanza” affronta il rapporto tra il celtico storico e i dialetti galloromanzi, in particolare il complesso dei dialetti lombardi. Non trascurando l’aspetto fonetico-fonologico dell’approccio più tradizionale al problema, l’A. trova un equilibrio con il più recente riferimento alla linguistica del contatto (dal 2001 a oggi), dedicata alla morfologia e alla sintassi, ritenuta oggi più significativa per la sua comprensione. Tra gli aspetti sottostimati del contatto, i tratti morfologici evidenziano, per esempio, la sostituzione dei pronomi soggetto con pronomi oggetto, fenomeno comune al galloromanzo, al galloitalico e al celtico; e con la deissi. La deissi, dal greco δειξις, “dimostrazione”, esprime l’insieme delle espressioni indicanti spazio, tempo e persona. Questo termine rinvia alle forme lessicali e grammaticali (morfemi, parole, strutture) che codificano i tratti della situazione in cui avviene un discorso. La deissi si può formare con l’uso del solo avverbio locativo come nel lombardo quèst òmm → quèst òmm chì → l’òmm chì, fenomeno che è documentabile anche nelle lingue celtiche. E ancora con l’uso di preposizione + infinito per esprimere modalità: es. l’è dree (a)ndà a cà, rispetto a el va a cà spess, l’è dree vènt pèss, el vènt pèss, strategia usuale nelle lingue celtiche per esprimere modalità stative o continuative. Tra i tanti tratti sintattici rilevanti presentati dall’A., si segnalano il mancato accordo tra verbo e soggetto dei verbi inattivi: es. croda i pêr, “cadono le pere”; l’uso di ausiliari nel perfetto di verbi meteorologici che nel lombardo è sempre vèss, “essere” come in l’è fiucaa, “è nevicato” (come del resto nel toscano), ma non nel veneto, ove si dice el xé nevegà, forma non marcata per “è nevicato” e per le forme marcate el ga nevegà, “è nevicato a lungo” (forma perfettiva). Nelle lingue celtiche manca l’ausiliare avere, e il lombardo che possiede e usa i due ausiliari (vèss e avegh) non usa mai avegh per situazioni meteorologiche, proponendo quindi in questi casi un più che plausibile contatto fra celtico e lombardo. L’A. conclude il suo saggio con una serie di trenta confronti lessicali, trenta esempi di relazioni tra celtismi e lombardismi il cui fascino non può che essere apprezzato nella giusta misura con una lettura diretta, senza necessità di una chiosa, comunque insufficiente.


Il lavoro del dottor Valerio Ferrari “Alcune proposte etimologiche pertinenti al dialetto cremasco” ci presenta una serie di voci cremasche, analizzate in chiave etimologica. Il cremasco appartiene al lombardo
orientale, i cui tratti caratteristici sono tutti in genere rispettati, come la caduta di -v- intervocalica (es.
ca-al, “cavallo”); o la caduta della nasale dopo vocale tonica, specialmente in fine di parola (es. balcù, “balcone”); o il passaggio di ū a ö davanti a m in sillaba chiusa (es. föm, “fumo”). I rapporti del cremasco con il bergamasco sono stretti ed evidenti, mentre non compaiono legami linguistici con il veneto, nonostante l’enclave cremasca sia appartenuta alla repubblica di Venezia dal 1449 al 1797. Gli esiti palatali presenti, per esempio cent, cervel, cintura, cito, avvicinano il cremasco al lombardo occidentale, differenziandosi così dal bergamasco e dal bresciano, che presentano sempre la fricativa alveolare sorda (servèl, sintüra, sìto) o sonora (śenér, śögn, śalt). Anche se il cremasco, a est dell’Adda, si inquadra perfettamente nel lombardo orientale, un’evidenza di contaminazione con il lombardo occidentale è comparsa a partire dal XIX secolo. Un esempio è fornito dalla scelta della prima proposta etimologica di Valerio Ferrari con balòs, “briccone”, che compare in una vasta area dialettale settentrionale che coinvolge anche il lombardo occidentale e il piemontese; o con barlafüs, “oggetto di nessun valore”, e per traslato persona incapace, dall’etimologia irrisolta, ma dalla corrispondenza perfetta con il milanese e il vigevanese. Ma garganèl, magnà, mascherpa, ningota, pigulòt, scüriàda, scurmàgna, sièl, śügnà, trabatà, tumagàta, vrunà, vrinà, sono altrettante piccole e preziose gemme presentate dall’A. tratte dal suo recente lavoro Etimologie dialettali cremasche. Origine, significato ed evoluzione di oltre 1200 vocaboli, con qualche divagazione, del 2020, lavoro che ha vinto il primo premio nazionale Tullio De Mauro 2021 nell’ambito del concorso nazionale Salva la tua lingua locale indetto dall’Unione Nazionale Pro Loco d’Italia, premio di cui l’A. va naturalmente fiero.


Il professor Marco Savini, in sintonia e in sinergia con il titolo del Convegno e degli Atti sulla fluidità
ed evanescenza dei dialetti, propone i risultati di una sua ricerca sul campo dal titolo “Proverbi popolari
sull’acqua. Un repertorio paremiologico lomellino”. La finalità del suo lavoro è chiara: “[…] offrire al
pubblico e agli esperti uno spunto per confermare nel tempo e nello spazio questo patrimonio comune
e, contemporaneamente, dare un saggio di diversi dialetti locali […] di dar voce, letteralmente, a
chi possiede o possedeva una valida competenza attiva del dialetto”. Marco Savini sa che il proverbio
assume un significato solo in uno specifico e naturale contesto: ecco perché la sua fissazione su nastro magnetico non è appagante: per i primi due informatori ha preferito l’espediente di utilizzare la lettura
e il commento di loro precedenti scritti. Del primo informatore, Luciano Travaglino (1930-2021) di
Gravellona Lomellina, l’A. fa notare la a turbata e l’imperfetto e l’infinito della prima coniugazione in
-è- ed -éva- (Gravellona Lomellina è località prossima verso nord al confine piemontese della provincia
di Novara, n.d.r.). I proverbi enunciati da Travaglino sono sempre relativi all’acqua, anche quando la
parola non viene citata. Ma la serie di proverbi riportati sottende una meteorologia contadina che fiuta
l’aria e l’ambiente come un cane da caccia, conosce il cielo, l’alone della luna, così come le nuvole e il
significato della loro variabile comparsa nell’arco della giornata, al fine di ricavarne indicazioni meteorologiche sulla pioggia, la sua durata, la sua stagionalità, come profezia di disastri o di benefici per l’umanità. L’uomo che emerge man mano dal possesso e dall’uso dei proverbi sull’acqua è un uomo (molto più frequentemente che donna), fortemente legato alla natura, da essa dipendente e dalle sue manifestazioni, che interpreta traendone previsioni: è un divinatore dell’acqua, delle nuvole e della pioggia; della luna e del tempo meteorologico, di cui è rilevatore e decodificatore non solo a fini pratici, ma talvolta con inaspettati esiti gnomici: “Var püsè la piöva la so stagiòn che la caròsa o l’tìśor del faraòn”. Interessante nei proverbi riportati da Travaglino l’effetto curativo e magico dell’acqua, soprattutto corrente, anche per malattie della pelle, con riferimento salvifico corporale, spirituale e senz’altro apotropaico: “aqua curìa ciapa al me mal e portal via”. Carlo Arrigone (1935-), il secondo intervistato, parla un lomellinese centro-occidentale dei dintorni di Mortara, caratterizzato dalla finale -a- dell’infinito della prima coniugazione e dall’imperfetto -ava-. Arrigone intercala nell’intervista il dialetto con l’italiano, usando quindi due registri per la sintesi dell’essenza del vivere contadino. La saggezza contadina sembra epitomizzata da: “Cämp d’in tèsta, dòna in fésta e pra cun la rúsà i ̔n trist da giüdicà”, o dal profondo, materiale e icastico: “Al pà’n d’un dì, äl vin d’un an e ̔na dona ad disdòt an”. Battista Colli (1919-2017) è stato per Marco Savini l’informatore più anziano, con il dialetto più conservativo. Informatore di Cilavegna, nord ovest della Lomellina, dice còʃt, e forma il negativo con nonta. Ricordava tutti i proverbi a memoria, noto (non a caso, n.d.r.) come meteorologo del suo paese. Con Battista Colli si ritorna a proverbi relativi ai mesi, alle stagioni, alla pioggia, all’acqua e al sole rovente, alla meteorologia, ai raccolti: “gennaio… spulverent al fa tanta ségla e furmént”, oppure “l’aqua ad febrè l’impinissa al granè”. Talvolta il proverbio meteorologico ha scarsissime probabilità di azzeccare la previsione, come in: “Nadal sparlón Caralvè tisón” (“Natale soleggiato, Carnevale gelato”). Piero Corsico Piccolino (1947-), di Vigevano, pescatore, allevatore, apicultore, parla un dialetto vigevanese quasi completamente privo di nasalizzazione, diverso dal lomellinese centrale: scarsissime le a turbate, frequente passaggio della o chiusa a u; specialistico lessico per pesca, flora, attrezzistica, diverso dall’italiano. L’acqua, per Corsico Piccolino, è quella del fiume, e per eccellenza quella del Ticino, il medium naturale del pesce, lungo le cui rive si sviluppano la cultura e il lavoro, come si può evincere da: “Té sü Tiśín t’è mai piantà né ciaplón, né faśö burlìn” (“Tu sulle rive del Ticino non hai mai piantato né fagioli del papa, né borlotti”, perciò la morale è non darti arie inutili).


Non è forse questa la conclusione auspicata dal professor Angelo Stella nella sua dolente prolusione, ridare cioè al dialettofono il ruolo centrale di autore e attore della propria lingua?
Un’ultima considerazione da parte mia: nel suo saggio il professor Sanga riferisce che il giovane linguista
Scheuermeier all’inizio degli anni Venti del secolo scorso, per la sua ricerca in Lombardia, a Vigevano cercava i contadini, ma vi trovò degli operai “scarpieri”, che però mantenevano dal punto di vista linguistico, come del resto i carrettieri, “una tradizione antica molto forte, che rivelava molte peculiarità, tanto che sono conosciuti e vengono derisi per il loro dialetto”.
Ho voluto perciò scegliere per la copertina una storica fotografia (anni Trenta del secolo scorso) di uno “scarpiere” vigevanese immortalato in una magnifica immagine di Guglielmo Chiolini. L’uomo è intento al suo lavoro in una fabbrica modernamente attrezzata di una specifica strumentazione meccanica. Tutto suggerisce decoro, attenzione e dignità. Nella quarta di copertina, invece, ho proposto la fotografia di un proprietario terriero con bastone da passeggio e con cane da caccia, con gli stivali immersi nella risaia, che osserva il lavoro dei contadini intenti alla sarchiatura manuale. La risaia lomellina è silenziosa, soleggiata e amplissima, delimitata all’orizzonte da un filare di pioppi. Anche questa fotografia è stata scelta dallo sconfinato Archivio Fotografico Chiolini di Pavia. Due immagini che ci trasportano alle situazioni dialettali cittadine e rurali coeve, entro cui si possono riassumere visivamente le ricchezze e le varietà dialettali di cento anni or sono, riscontrabili a pochissimi chilometri di distanza.


Un ringraziamento a tutti e buona lettura.
Giovanni Borroni
Presidente
Società Storica Vigevanese

Fluidità ed evanescenze monografia ssv 2023
Pubblicato dicembre 2023
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